Rivisitando Leopardi

Rivisitando Leopardi

Vivendo in un tempo come il nostro, in cui gli inviti all’antistress proliferano in modo vertiginoso e anche indiscriminato, orientarsi nella miriade di proposte che garantiscono relax, risveglio interiore, autoconoscenza, può diventare sempre più, non solo difficile, ma anche, paradossalmente, stressante, non sapendo che cosa scegliere né come scegliere.

Sono così tante le iniziative che già qualche anno fa Alessandro Rostagno, in un articolo sull’Espresso (n. 38), ebbe a definire il nostro tempo una specie di Santo Supermercato dove si espongono “religioni usa e getta” per tutte le taglie e per tutte le stagioni. Che sia zen, new age, yoga, poco importa, il criterio in questo caso è solo quello dell’offerta speciale. Ma il rischio è quello del disimpegno. Per di più a complicare la situazione c’è la pubblicità, che, veicolando le informazioni in modo distorto, sviluppa situazioni di confusione. Cosicché il ticket da pagare sembrerebbe essere a prima vista o un nuovo tipo di stress, da indossare come un abito che fa tendenza, o il classico e aristocratico scetticismo, che mantiene le debite distanze, o il qualunquismo del pot-pourri disposto ad accoglienze indiscriminate.

Non si può tuttavia disconoscere, alla base di tutto questo, l’affermarsi di un certo bisogno di ricerca che manifesta i sintomi di una fame che la civiltà dell’abbondanza non ha saputo soddisfare.

Pertanto, se non è il caso di entrare senza bussola nella giungla delle opportunità offerte a garantire positive esperienze di vita riconciliata, e se non è opportuno né reprimere né ignorare i sintomi di una fame spirituale in continua crescita, è ragionevole porsi il problema: che si può fare, se non inventarsi una soluzione? Inventarsi, ecco la parola chiave, solo che l’invenzione implica sempre la novità e la novità richiede sempre radicalità e controtendenza. In questo caso l’alternativa nuova potrebbe essere proprio quella di… non scegliere, e maturare invece le condizioni necessarie per essere scelti. Ciò non significa assumere un atteggiamento deresponsabilizzante di non-azione o di qualunquistica indifferenza, significa semplicemente mettersi in una situazione di estrema semplicità e di umiltà: rinunciare a plasmare per essere plasmati, perdere il ruolo attivo del vasaio, per accogliere il ruolo passivo del vaso. In termini di comportamento pratico si tratta di temporeggiare, ovvero sedersi al margine della giungla ed attendere.

Rinunciare a scegliere in questo caso vorrebbe significare semplicemente recuperare il senso dell’attesa, in particolare ella attesa fiduciosa. In simili situazioni l’unico rischio potrebbe essere quello della noia, che certamente non è da sottovalutare in quanto può diventare un veleno mortale, se non accolta, compresa, trasformata.

In questo caso la POESIA si dimostra essere un vero antidoto, un salvacondotto unico, non solo per attraversare indenni le sinuosità infide della noia, ma addirittura per trasformarle in Canto.

A questo punto varrebbe proprio la pena di rispolverare i vecchi ricordi di scuola ed esporsi al canto di colui che ha conosciuto la noia cosi intimamente da sublimarla, elevandola ai toni della più alta Poesia: varrebbe la pena di rivisitare Giacomo Leopardi, salendo con lui sul monte Tabor, il colle dell’INFINlTO, fino a scoprire che il salire altro non è che lo scendere nella profondità del cuore.

Paradossalmente sto proponendo Leopardi, l’infelice per eccellenza, come l’autorevole guida che può condurre gli iniziati fino alla soglia della felicità; sto proponendo Leopardi, laico ed ateo dichiarato, come il realizzato maestro di vita spirituale che ha indicato la via, tutta la via da seguire, in quindici “asettici” versi, a cui ha dato per titolo L’infinito.

E dico asettici versi, perché la poesia è priva del benché minimo compiacimento sentimentale o intellettuale; infatti gli unici riferimenti “caldi”, equamente distanziati tra di loro, sono il “caro mi fu” del primo verso, il “non si spaura” dell’ ottavo verso e il ”m’è dolce” del quindicesimo verso.

Il primo è l’indicatore di situazioni passate, il secondo di una difficoltà sfiorata e subito superata e il terzo suona come la dichiarazione di una testimonianza. Nessuno dei tre stati d’animo è vissuto con attaccamento emotivo, anzi, si avverte quasi una certa fretta di andare oltre per entrare presto nel silenzio della parola. La poesia e cosi poco umana che può risultare fredda, in quanto priva di argomenti che possano attrarre sentimenti e ragionamenti. Del resto l’esperienza dell’infinito non è comunicabile: chi vede il contemplante non contempla né può conoscere l’oggetto di quella contemplazione, quindi rimane estraneo. E forse la motivazione storica che ha spinto Leopardi a scrivere questa poesia potrebbe nascere dall’esigenza di tracciare le tappe del percorso per dare a tutti l’opportunità di conoscersi e riconoscersi nell’Ineffabile lnconoscibile. Del resto, chi conosce la BELLEZZA può solo mostrarla e comunicarla a tutti.

Proviamo allora a seguire il tracciato dei suoi passi.

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle”

L’attacco di questo primo verso è deciso, solenne, incontrovertibile, con due indicatori temporali, sempre e fu, molto forti.

Con il FU sembra che Leopardi voglia fare un rapido cenno al tempo mortale, che è destinato subito al passato remoto, per contrapporlo al tempo immortale che invece fluisce nel presente e che è il tempo nel quale si sviluppa l’intera poesia.

Con il SEMPRE invece scolpisce con una sintesi lapidaria la realtà di precedenti esperienze, forse non complete o non sufficientemente consapevolizzate, ma tali da far sentire il luogo come CARO.

E il luogo, che può configurarsi come il simbolo geografico di una situazione spirituale di partenza, è un colle solitario, mentre l’approdo a una dimensione spirituale, che si realizza nel fluire del presente, è scenograficamente rappresentato dal mare.

Dal monte al mare è il percorso del fiume, cioè il fiume della vita.

In termini di percorso iniziatico significa: il primo passo è quello della solitudine e del silenzio (ERMO), della costanza (SEMPRE), dell’attesa fiduciosa (CARO).

Il luogo del ritiro non è solo uno spazio fisico, ma anche psichico.

E certamente non è una coincidenza se i due riferimenti emotivi espressi in termini personali sono in questo primo verso, caro MI FU, e nell’ultimo, M’È dolce.

All’interno della poesia ne è presente un altro che però viene riferito in termini impersonali: “il cor non si spaura”.

 “E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”

La vastità dello spazio geografico che dal colle si estende fino al mare è preclusa alla vista da una siepe. La siepe è quindi un impedimento, eppure Leopardi la considera ”cara” come il colle solitario, anzi, insieme al colle solitario.

La siepe rappresenta il limite, è ciò che frena l’avidità dei sensi, in questo caso la vista, e blocca le aspettative più facili e superficiali (in questo caso la bellezza di uno spazio geografico che, per quanto bello possa essere, rimane sempre limitato).

Ecco quindi che Leopardi ci sta dicendo che un certo tipo di solitudine, di contrattempo, di aspettativa contrariata e un certo estraniamento sono in realtà situazioni privilegiate in quanto permettono esperienze uniche e gratificanti oltre l’immaginabile.

Questo secondo passo in termini di regola iniziatica prescrive la preclusione della vista. Non è un invito, ma un vero e proprio imperativo che costringe a disattivare le antenne sensoriali, a partire dalla vista.

 “Ma sedendo e mirando interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco”

Con questi versi vengono delineati in rapida successione gli altri prerequisiti necessari per entrare nella dimensione dell’lnfinito: SEDENDO, MIRANDO, MI FINGO.

Tutto avviene contemporaneamente e rapidamente appena viene presa la decisione di intraprendere la via del ritiro interiore. Immediato è l’atto del sedere, cioè della non-azione, riposando nell’abbandono spirituale e dando subito accoglienza all’atto del mirare.

Occorre allora precisare che il “mirare” non è il vedere della vista, ma l’osservare attento di un animo puro che sappia ospitare la meraviglia. Il MIRA-RE è di chi abbia maturato in se stesso la disponibilità a farsi dimora del MIRA-COLO ed abbia cioé acquisito la capacità di attesa paziente, fiduciosa e vigilante.

In breve la normativa dell’infinito impone al corpo una stabile posizione di quiete fisica e al pensiero la concentrazione dell’attenzione, osservando al di là della soglia dell’umano.

 ”Il cor non si spaura. E come il vento”

A differenza del “…CARO MI fu…” iniziale e dell’ultimo ”…naufragar M’E DOLCE…”, il dato emotivo di questo verso viene riferito in termini impersonali. È solo IL COR, cioè la parte di un TUTTO e non il TUTTO, a prendere spavento. E tale situazione acquista una particolare rilevanza in quanto si contrappone a quella del verso precedente.

Mentre l’atto dell’immaginare è realizzato con forza dall’IO, “IO NEL PENSIER MI FINGO”a spaventarsi è solo il cuore.

Con la forza della visualizzazione Leopardi sembra avere innescato la marcia del distacco, quella che gli dà la possibilità di proseguire l’esperienza, oltrepassando la dimensione della paura egoica e risvegliando cosi la memoria e la comprensione dell’eterno.

Superare il livello della paura, la paura dell’ignoto, è il quinto passo che viene indicato come quello decisivo, oltre il quale non si torna più indietro.

La paura non è che una barriera inventata dall’ego per salvaguardarsi e sopravvivere nel compiacimento dell’illusione. Il quinto passo implica la morte, dell’ego e l’accoglienza della vita infinita. Lo sgomento è la soglia da varcare per entrare nell’illimite.

 “Odo stormir tra queste piane, io quello
Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l”eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa”

Dopo questo quinto passo i sensi fisici si ridestano con una nuova potenzialità, tanto da riconoscere negli elementi della vita mortale (lo stormire delle piante, il vento…) i segni della vastità temporale e spaziale dell’ETERNO.

Questa è la fase della massima comprensione e della consapevole esperienza del CONTATTO.

 ”Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare”.

Dissolta l’individualità dell’ego, il soggetto attivo è solo il “naufragar”.

Questo settimo passo rappresenta il momento della fusione. L’onda si riconosce mare e gioisce. L’uomo si riconosce proiezione-emanazione di Dio. E in Dio gioisce.

Buon cammino a tutti!

Rita Bigi Falcinelli

 Rivisitando Leopardi (250 kB)