La Spastica

La Spastica

PREMIO LETTERARIO NAZIONALE

per novelle inedite

«EMILIO DE MARCHI»

Seconda Edizione

Giuria: Davide Lajolo, Massimo Grillarteli, Giovanni Amarù, Bruno Mandelli, Agostino Tazzini.

:PIPPO SARDO di Palermo per «I pali» (Efficace metafora sulla fissità del palo di legno di altri tempi e lacondizione continua del bambino, al di là di vuote parole ed iniziative di importanza mondana, che lasciano costantemente aperti i problemi della fanciullezza).

CORRADO MACCHI di Milano per «Giuseppe Darimatea».

STEFANO D’ARCANGELIS di Roma per «Buon millenovecento-ottanta» con segnalazione, pari merito, di: EDWIGE LIVELLO di Lugano per «Gigi»ENNIO PAOLINI di Segrate per «Il risveglio»ROSSELLA PICOLLO di Genova-Prà per «Il pozzo».

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a RITA ARMANDA BIGI FALCINELLI di Ancona per «La spastica» (L’Autrice ha proposto uno dei problemi più gravi della società contemporanea, mai concretamente affrontato, con magistrale validità di narrato).

MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA a STEFANO MOSCATELLI di La Spezia per «ll figlio del vento» (pur meritando un più preciso consenso, non si è attenuto alle norme del concorso; tuttavia, scioltezza narrativa e temporale hanno evidenziato una capacità di costruire, con sintesi, materiale atto a proporre una saga contadina).

«LA SPASTICA»

Me n’ero stata fino a quel momento tranquilla a crescere dentro al mio sacco amniotico, finché una smania insidiosa, che chiamano legge di natura, prese a spingermi per cercare la luce.

Cosa fosse poi questa luce non lo sapevo, ma l’ordine imposto, oltre che irrevocabile, non lasciava spazio a defezioni, pena la morte. Nemmeno della morte avevo un’idea chiara, ma di certo doveva trattarsi di qualche evento spiacevole nel quale mi sarei trovata coinvolta, se non mi davo da fare.

Così mi agitai, di malavoglia però, e presi a scivolare verso quella che doveva essere l’uscita per la vita. Trovai solo uno spiraglio ed io pesavo già i miei tre chili e mezzo.

Non ce la facevo a passare, però a vedere quello spillo di luce che filtrava illuminando il mio buio, m’incantai estasiata e intimorita. Fu allora che conobbi il desiderio, la forza, la rabbia della vita. Calciai, strinsi i pugni e con la testa premetti forte, più, più volte. Inutilmente.

Mi ritrassi stremata e delusa. Se qualcuno mi voleva, poteva pure venire a cercarmi.

Per un po’ non successe niente e con le forze, che la pausa mi restituiva, riaffiorava prepotente il desiderio della luce, la curiosità della vita.

Tornai alla carica con lo slancio della decisione e per un momento mi sembrò anche di avercela fatta, perché sentii un grido, di certo non il mio. che m’impaurì terribilmente. Mi ritrassi e mi raccolsi in una attesa stanca, assaporando la morte davanti a quella luce che già conoscevo malvagia.

Ma potevo io morire, se non ero ancora nata? Evidentemente sì, malgrado gli uomini, lo avrei scoperto molto tempo dopo, riconoscessero valore e dignità di vita solo ai già nati.

Mi baloccai ancora un po’ con tali pensieri fino a chiedermi:

«Quando la mia vita ha incominciato ad essere?» Non ebbi il tempo per una risposta, perchè qualcosa si stava muovendo lì dentro. Un corpo estraneo, che frugava deciso ed insistente. Capii e docile mi lasciai ghermire da un artiglio rapace. Sentii stringermi forte, troppo forte, e conobbi la lacerazione del dolore.

Cristina è il mio nome, ma mi chiamano la spastica, un termine molto diffuso oggi, — persino i bambini se lo gridano addosso con volontà di sprezzo — perchè è una parola che, vantando origini mediche, per la freddezza della decisione diagnostica riesce più sottilmente infamante del dozzinale «scemo», che ha solo una tradizione popolare. E spastica lo sono davvero.

Gli avambracci stanno aperti e sospesi sui gomiti come due ali, le mani rattrappite e piegate sui polsi.

Non parlo. La voce ce l’ho, ma la lingua è capricciosa, non mi obbedisce, impasticcia tutti i suoni e le parole non escono.

La mente, smarrita dentro una nebbia spessa e fosca tale da rendere indistinti volti, rumori e colori, per anni vagò a vuoto. A liberarmi fu la grazia armoniosa delle bolle di sapone, la voglia pazza di toccarle, la consapevolezza fulminea di non avere niente per farlo.

Quando poi una bollicina, minuscola e più fragile di me, sciamò via dal gruppo per rompersi sul mio naso — un tocco lieve e magico che risento ancora sulla pelle con rinnovata emozione — riconobbi la luce, mi scoprii viva, iniziai a contare il tempo.

Subito mi chiesi: «Quando la mia vita ha incominciato ad essere?»

Avevo otto anni e nessun ricordo in testa!

Vivevo in istituto e tutti mi conoscevano, gli altri bambini, — spastici e distrofici — le inservienti, le maestre, le suore, eppure io H vedevo per la prima volta con sorpresa curiosa. Ma a colpirmi di più furono le parole. Di certo se ne stavano annidate dentro la bocca, perchè quando questa si apriva, uscivano fuori a grappoli, legate al filo della voce, e si spargevano nell’aria, magiche, invisibili.

Quando anch’io spalancai la bocca, decisa a parlare, gridare o cantare, non sapevo ancora cosa ne sarebbe uscito fuori, Velia, l’inserviente, me la riempì di ciambellone. Era scattata l’ora della merenda con la distribuzione rituale di pizza, ciambellone, tè.

Soffocai, perchè le molliche corsero su per il naso, altre invece si fermarono compatte di traverso, irritando laringe e trachea.

Due colpi sulle spalle e un bicchiere di tè che trangugiai d’un fiato mi rimisero in sesto.

M’indispettii, poi giacqui delusa: se gli altri potevano muovere la bocca a loro piacere, aprirla e chiuderla a più riprese, senza essere violentati da infornate di cibo, significava che io non l’avevo mai usata per parlare.

Sì, urgeva una verifica, ma poiché non intendevo morire soffocata, per la prova della parola attesi che i carrelli riportassero in cucina le teiere e i vassoi vuoti.

Mai più lentamente le gocce del tempo stillarono sopra una speranza già disattesa.

Fui l’ultima ad uscire dal salone e m’attardai davanti alla finestra, aperta per le pulizie. Con la complicità del vetro, che mi faceva da specchio, presi a muovere le labbra nella ripetizione dei movimenti visti.

Ne uscì un suono, debole, impercettibile all’udito, simile a gemito e, nonostante ciò, ricco di promesse.

Il salone era vasto e luminoso, panche per sedere lungo il perimetro, giochi ammucchiati in ceste, un bigliardino vicino alla porta, il televisore in alto, sopra una mensola.

Lo spazio centrale, vuoto, era per i giochi, ma restava inutilizzato, perchè inutili erano i nostri arti. Preclusi i divertimenti più comuni, come correre, ad esempio,.o calciare sul pallone, chi aveva una mano da muovere si sceglieva un pupattolo di gomma, di solito piccolo, per afferrarlo meglio, e se lo strusciava addosso per tutto il tempo, gli altri invece si raccoglievano in gruppi di mutuo soccorso. Nel mio c’era Barbara, un corpo rigido e contratto tanto da scivolare perennemente dalla carrozzella con la lentezza dell’agonia, che parlava in modo nitido, io, che camminavo, mentre Donatella e Monica, insieme, erano le nostre mani. Avendo ricostruito in quattro le facoltà di uno, godevamo di una relativa autonomia. In caso dì pericolo, eravamo sempre in allarme durante le incursioni di Rocco o le crisi depressive di Franca, Barbara gridava, Donatella e Monica tentavano una debole difesa, io scappavo per cercare altrove soccorso per tutti. La sera che Rocco uccise i nostri pulcini — ce li aveva portati il padre di Donatella, operaio del covatoio — ci fu grande agitazione.

Suor Elisa li aveva sistemati dentro uno scatolone e Rocco, per prenderne uno, lo aveva stritolato con le sue forti mani. Quando se ne accorse, lo scaraventò via con furia, poi si avventò sugli altri, facendone scempio.

A vederli, sparsi a terra, inermi e disarticolati, scoprii che assomigliavano a noi. Anche Elisabetta giaceva a terra, sempre immobile, con gli occhi vuoti e le braccia a croce.

Compresi allora il concetto del morto che vive. Non serbai rancore per Rocco, in fondo al pulcino era toccata la mia stessa sorte, una presa troppo stretta, senza una precisa volontà di male. La malattia mi aveva concesso II privilegio di camminare, anzi, a essere precisi, di saltellare. Perchè, non riuscendo a calcolare il rapporto tra distanza da coprire, elevazione del piede e peso, i passi scivolavano via in una serie di saltelli.

Le scarpe ortopediche; rigide e pesanti, servivano proprio a questo, a ostacolare l’elevazione del piede, per rendere l’andatura più stabile e fluida.

Sì, potevo andare dove volevo, anche salire e scendere le scale, ma con i piedi in gabbia, le mani inutili e le parole perse, mi rimaneva ben poca scelta nell’azione: guardare, ascoltare, fantasticare.

Così, durante la ricreazione collettiva, quando le mastre si  distraevano  nell’animazione delle chiacchiere, m’isolavo sopra una panca vuota a imitare, ma solo nella mente, i loro gesti e le parole.

Vivevo le mie scene con molta intensità, sognavo bellezza ed eleganza e invece mi uscivano involontarie smorfie che avvaloravano l’ipotesi della mia deficienza.

Pur di non interrompere il gioco, ero capace di rinunciare alla merenda, serrando le labbra con mugolii rabbiosi.

In questo sapevo essere decisa e caparbia. Oppure m’incollavo alla finestra, quella spalancata sulla gente che gremiva la strada sottostante. Grandi e piccini che passavano e ripassavano a tutte le ore.

A forza di contare le persone che camminavano, quelle che avevano mani e braccia sane, quelle che, muovendo con armonia le labbra, presumevo parlassero, imparai tutte le operazioni del conto.

Appresi anche, e con dolore, il concetto della differenza. Perchè fu operazione naturale e conseguente quella del sottrarre dalla realtà esterna, e cioè dei più, quella nostra, interna, di fiori anomali coltivati in serra, e cioè dei meno.

Quando la differenza arrivò a scavare solchi abissali, trasformandosi in tragica divisione, abbandonai per sempre la finestra, aperta ormai solo sulla mia separazione.

E mi dedicai al cielo: ore d’incantamento con il naso in su, per soffrire le palpitazioni dell’ansia e il fremito dell’infinito, quando sul mio corpo storpiato imperversava il sereno. Perchè una distesa che non si lasciava contenere dallo sguardo, senza limiti e confini umani, statica e uguale a se stessa, m’opprimeva con la sua cappa di gelida perfezione.

Se invece i fiocchi delle nuvole correvano a macchiare l’azzurro, creando barriere e recinzioni, riducendolo a dimensioni umane, mutandone l’aspetto ad ogni istante, allora tra le forme bizzarre che il vento componeva c’era uno spazio anche per me, per sintonizzarmi come cittadina dell’aria.

Una volta fra dirigibili che puntavano arditi sul sole e branchi di cani in corsa, mi vidi sulla prua di un vascello pescare con un filo di nube e all’amo c’era Barbara, leggera ed aggraziata così com’era prima che il suo tempo fosse.

Anche gli spiragli azzurri, quelli aperti come speranze tra le foglie dei pioppi canterini, mi rapivano l’estasi, i sogni, i voli di amore e di dolcezza, perchè mi parlavano con armonie discrete di un infinito che potevo scorgere senza smarrirmi.

In quei momenti, la bocca aperta, il capo rovesciato, persa nel vortice di sensazioni sottili che mi tremavano sulla pelle, nessuno avrebbe osato la scommessa su un mio residuo di intelligenza.

Eppure è dalla scuola del cielo che ho imparato la gamma dei colori, anche nelle sfumature minute, creati dalla luce.

La luce! Mio primo desiderio, tormento ed estasi. La cerco ancora, nel pallore lontano delle stelle o in quello discreto della luna, nell’intermittenza umile delle lucciole, nel riverbero rosso del tramonto, nell’abbaglio impietoso del mezzogiorno.

E i miei quadri, chi avrebbe mai scommesso sulla mia vocazione d’artista?, traboccano oggi di luce e di angoscia.

Di notte, fuori dalle scarpe e dalle calze, vivevo il mio momento di esaltazione in frenetiche ispezioni al letto, in comparazioni e verifiche per acquisire, al tatto, nuovi concetti uguali e contrari — liscio ruvido, morbido duro, rigido elastico, — in estenuanti esercizi per addestrare le dita dei piedi alla presa.

Una sera, a forza di tirare, lenzuolo e coperta scivolarono a terra e rimasi scoperta fino al mattino, perché il filo di voce’che riuscivo a far salire dalla gola, benché amplificato dal silenzio della notte, non bastava ad attirare l’attenzione nemmeno di Barbara, che pure aveva il sonno leggero come un soffio.

Quando tra le pieghe delle lenzuola trovai un cagnolino di gomma, un dono che Barbara aveva nascosto lì per evitare che gli altri me lo portassero via, provai un’emozione indimenticabile. Ben presto si sparse la voce, si fa per dire, delle mie escursioni notturne. Di certo io non avevo parlato, ma fra noi, proprio perchè non ci sono le parole a confondere i messaggi, ci s’intende al volo.

La parola!, una magia in breve scaduta a sortilegio infame, la parola!, una corruzione che l’uomo usa per dividere, recidere i sentimenti, smarrire le coscienze, uccidere, mi è stata spenta per imparare la lingua dell’universo, essenziale, fatta d’istinto e d’intuizione.

Così il mio letto divenne sorprendentemente miniera, dopo il cagnolino una pallina, poi un cubo — e venni studiando le proprietà dei solidi —, poi un fischietto.

Ma un fischietto a che serve se non a fischiare? Afferrarlo con il piede e tenerlo stretto era facile, ma serrarlo tra le labbra si rivelò imprésa ardua. Perchè senza un puntello non ce la facevo a piegare la gamba tanto da arrivare all’altezza della bocca, la forza si disperdeva lungo il corpo e scivolavo sul letto. Se poi riuscivo a tenermi ferma incastrando la testa tra i bracci della spalliera, nel momento più critico, quando l’emozione era all’apice e il tremore del corpo si faceva violento, il fischietto cadeva.

Quando potei stringerlo con la forza combinata di labbra e denti, non avevo più fiato per dargli la voce.

É stato così che ho imparato la volontà della non resa, la caparbietà delle decisioni, la pazienza ostinata e prepotente.

Con l’estenuazione del tirocinio divenni così abile da scartare con destrezza caramelle e cioccolatini, tesori che nel corso della giornata s’accumulavano furtivi dentro il letto, verso lo spigolo interno del materasso o sotto il cuscino.

I compagni mi sapevano golosa, è vero, ma quei doni oltre a testimoniare il loro affetto rappresentavano l’omaggio deferente verso la diversità che dovevo al mio mutismo totale. Per qualche misterioso complesso psicoemotivo questo fatto, che i «normali» considerano un handicap, veniva sentito dai miei compagni, che le parole ce le avevano, ma Storpiate e sgraziate nella voce, — persino Barbara quando parlava non poteva evitare l’affanno — come un segno di perfezione cui era dovuto rispetto e sudditanza.

Dopo la gozzoviglia lasciavo sulle lenzuola le macchie inevitabili dell’ingordigia e mi piaceva allineare sul comodino le carte dei dolci stirate e ripiegate sui bordi con cura puntigliosa. Una per ogni impresa.

A nessuno si poteva attribuire simile lavoro. Mai avrebbero pensato a me né al sacrificio di una notte di sonno.

Venni così appurando il paradosso: nel lager della subnormalità tutti sapevano, a non capire invece erano gli altri, quelli che, resi dalla intelligenza ciechi e confusi, ci tenevano dentro un box proprio con la pretesa di osservarci e di aiutarci.

Né le inservienti né le suore né le maestre né i terapisti neppure lo psicologo, saccente ed osannato, vennero sfiorati dal sospetto che avessi potuto usare i piedi a sostituzione delle mani, finché una mattina, prima che Velia arrivasse al mio letto per vestirmi, mi feci trovare con un calzino già infilato. Uno solo però, e questo era il mio limite, perchè con le dita impedite dalla calza non potevo infilare anche l’altro.

Corsero tutti a vedere, a esclamare allibiti e sorpresi. Mi guardavano come un ufo caduto dal cielo e la cosa m’infastidì, in seguito durante certe visite accompagnate dal direttore o dallo psicologo mi sentivo sollecitare «Fai vedere, da brava, come lavori con il piede!». Mi mortificavano ad attrazione dell’Istituto, allora tiravo calci per non farmi togliere le scarpe.

Ma i vantaggi conseguiti furono notevoli.

A scuola trovai una macchina da scrivere con una doppia tastiera di cui una a terra, perchè la battessi con il piede, conobbi i difficili equilibri di ardite architetture composte con le costruzioni, l’eccitazione del colore, allorché riuscii a sporcare con i pennelli fogli di ogni dimensione, e l’armonia del disegno. Facevo fiori con lo stelo piegato, alberi con rami mozzati, foglie rosicchiate dai vermi e suore con veli sporchi di nero cui mozziconi di mani s’aggrappavano affannose lasciando segni indelebili di dolore.

Per la prima Volta venni riconosciuta «portatrice di intelligenza» e nella galleria tormentata dei miei dipinti qualcuno ci vide pure un barlume d’arte.

Crescevo. I piedi sempre più agili e prensili, il cuore sempre vuoto di affetti. Di cose, di persone. Di cose, non potendone garantire un lungo possesso, di persone, perchè compagni, maestre ed inservienti sfilavano di continuo nel carosello del riciclaggio. Anche Barbara e Donatella, più grandi di me, erano partite verso ignoti, e sicuramente infelici, destini. Di parenti non dovevo averne e comunque non ne avevo mai conosciuti e dei genitori non m’era chiaro nemmeno il concetto. Ne sentivo parlare quando per Natale qualcuno tornava a casa, allora la maestra mi spiegava «Una casa è un edificio come l’Istituto, ma più piccolo, di solito con un corridoio e qualche camera, dentro non ci sono né suore né maestre, ma la mamma, il papà, i fratelli, le sorelle, a volte c’é un’inserviente che però si chiama «collaboratrice familiare».

Restavano le suore, inamovibili quelle, ma distaccate. Un nugolo di farfalle bianche, fragili ed irrequiete, abili a ricamere, a cantare le canzoncine dell’infanzia e gli inni della religione, a comporre collage e album colorati, a crescere e moltiplicare piante, ma svampite nei pensieri e leggere con i loro svolazzi di vita ingenua. Una innocenza che nemmeno il rantolo del nostro tormento poteva scalfire.

Suor Elisa, mani bianche e delicate, non conosceva lo sforzo di raccogliere da terra i corpi contratti dalla convulsione del tremito.

C’era l’inserviente per cambiare una posizione divenuta ormai insostenibile. Assente, sempre con un registro da ordinare, una cartella da battere a macchina o il frivolo chiaccherino da intrecciare con mosse veloci e precise fino a creare un merletto di eleganza unica.

Suor Anna esauriva ingegno e tempo a comporre puzzle, a plasmare argilla e plastilina, a decorare sassi e conchiglie. E poco importava se Peppino si contorceva nella scalata del seggiolone per cercare almeno di vedere l’oggetto di tanta attenzione esclusiva nella sua suora.

Suor Maria, piccola, grassa, trafelata, poteva turbarsi, persino disperarsi, se il ragnetto rosso bloccava la fioritura delle ortensie o se l’oidio deturpava l’eleganza altezzosa delle rose, eppure passava imperturbata tra i grovigli dei bambini falciati a terra. Le sarebbero bastati due colpi di cesoie dati a caso per estirpare senza patemi il nostro male. Così, per cautela, al suo passaggio mi tenevo sempre a distanza di sicurezza.

Meno pericolosa, nonostante brandisse grossi coltellacci, era Suor Gertrude, la «matrona» dei purè e dei passati di verdura. Viveva nella cucina, profumava di aglio e rosmarino, controllava i tempi di cottura.a colpi di padre—nostro, ave-maria e glorialpadre. Un uovo in camicia, tre gloria veloci, la carne arrosto tre giri di corona.

Se la santificazione rituale di certe feste richiedeva un supplemento di preghiere, allora si dedicava a cucine lunghe ed elaborate.

Insomma, una vita povera la mia, ma essenziale. Niente capricci, niente esigenze, ignorata ed anonima, ma libera nei pensieri e nelle fantasie.

Avevo anche un bagaglio inutile di parole che i logopedisti, uno dopo l’altro, mi avevano estorto con la tortura dell’insistenza. Semplici bisillabe, una quindicina in tutto, come mare, neve, pane, cane, topo, del cui possesso non sapevo che fare. E nessuno invece che mi avesse insegnato parole importanti come Infinito, Eterno, Amore, Speranza, Paura, Vita, Morte. Certo, che ci fa con queste parole una spastica mezzo deficiente? Solo una signora con lo slancio del suo affetto m’insegnò un giorno un’intera frase. «Ti amo», alitò scandendo le lettere e l’imparai all’istante. Ma lei non era una «specialista», non era nemmeno una dama di S. Vincenzo né un’esponente di qualche altra confraternita di carità. Però veniva sempre, d’inverno, sola o con gruppi di ragazzi che guidava a colpi di sguardo. Quando arrivava, il mio gruppo si scomponeva, si agitava, tentava la mimica del gesto festoso, altri s’avvicinavano incuriositi arrancando, striciando, levando le mani nel vuoto dell’aria. E un brivido di attesa calava nella stanza.

Prima mi liberava dalle scarpe che nel pomeriggio, fuori dalla scuola, mi rimanevano incollate ai piedi come duplice condanna, poi dalla sua borsa, un grosso sacco blu notte, cominciava ad estrarre qualche dono, libri , costruzioni, lavagnette magnetiche, uno alla volta e con la lentezza esasperante, del contagocce, cosicché, quando finiva d’immergere quella sua mano scarna nelle profondità misteriose della borsa, rimaneva sempre il sospetto che dentro ci fosse ancora qualcosa.

Un giorno che aveva lasciato-incustodito il sacco, mentre era presa dall’assedio di Monica e Paola che volevano giocare alle corse, recuperai alla luce una cartella piena di schede. Erano di due tipi, una con gli indovinelli, l’altra con il disegno corrispondente alla risposta esatta. In breve le abbinai tutte, anche le più difficili e incomprensibili, poi le lasciai allineate sulla panca per mostrare la mia bravura. Quando se ne accorse, si sorprese mi guardò e capì che avevo giocato d’astuzia. Le schede avevano una fascia lungo il perimetro con tanti colori diversi quanti erano gli indovinelli, ma le coppie esatte erano contrassegnate dallo stesso colore.

«Brutta birba» esclamò «E pensare che nemmeno io me n’ero accorta». Sorrise e mi abbracciò. Quando se ne andò, l’accompagnai alla porta reggendo con i gomiti la sua borsa, e nell’emozione del commiato mi prese la frenesia della parola, gorgogliavo suoni spasmodici che si deformavano in rantoli e poi tacevano, allora sfregai il viso nelle sue vesti per strapparne l’odore e possederlo. Dolce o acre che fosse, sapeva di madre. Un profumo intenso e inebriante, nel suo e nel mio desiderio. Quella sera piansi, forse per la prima volta, e il naso mi colava. Monica voleva pulirmelo, ma con i suoi gesti goffi e imprecisi era così buffa che scoppiai a ridere. Gli altri, contagiati, ingrossarono la risata che si fece scomposta, chiassosa.

Rita Bigi Falcinelli